Sono curioso di leggere i dati relativi
all'iscrizione all'Università degli Studi e al Politecnico di Torino
per i prossimi anni accademici. In base all'ultima ricerca di IRES Piemonte, gli studenti iscritti a questi due atenei, oltre a sfiorare
le 100.000 unità, comportavano una presenza di studenti stranieri
pari a circa l'8%, il doppio rispetto alla media italiana.
I motivi per cui uno studente sceglie
di studiare in una città all'estero o comunque lontano da casa sono
molteplici, dalla rilevanza dell'ateneo di destinazione alla qualità
della vita che in quella città può trovare.
Ai tempi dei miei studi universitari,
le due destinazioni più appetibili erano Barcellona e Bologna. Per
tacere sulla prima, ricordo che Bologna in quegli anni generava
fenomeni culturali come il collettivo oggi noto come Wu Ming, che si
raccoglieva attorno alla figura di Umberto Eco, oltre a garantire di
per sé stessa una corposa dose di divertimento a chi studiava in
città.
Tutto ciò finì nel 2004 con la politica del coprifuoco
voluta dall'allora sindaco Sergio Cofferati, per certi tratti simile a
quella che alcuni auspicano – e non solo da oggi - a Torino.
Beninteso, nessuno nega che l'impatto
che un numero così importante di studenti in una città che conta meno di
un milione di abitanti abbia conseguenze di difficile gestione, una
su tutte il fenomeno che chiamiamo malamovida, ma senza entrare nel
merito della gestione di questo tipo di fenomeni collaterali, mi
pongo due domande.
1 – Un numero così cospicuo di
studenti è da considerarsi oggi a Torino una risorsa o un problema?
In una città il cui comparto manufatturiero è collassato, la
presenza di studenti sembrerebbe mettere politicamente d'accordo
tutti, dai neoliberisti che possono leggervi l'opportunità di
accedere a nuovi segmenti di mercato (dall'affitto dei posti letto
agli studenti fuori sede in giù) ai socialdemocratici come il
sottoscritto che leggono nell'accesso all'istruzione un motore di
processi innovativi e di sviluppo sociale e culturale. Evidentemente
non per tutti è così.
2 – Considerando l'invasione
studentesca un problema, soprattutto nella sua fisiologica riluttanza
ad aderire completamente alle regole dovuta all'ambizione di vivere
momenti di aggregazione libera e non strutturata, e volendo dunque
ridimensionarla, abbiamo a portata di mano una attività produttiva
qualsiasi che compensi in ricadute il mancato introito derivante da
questa risorsa? In altre parole: qual è la vocazione della città
per i prossimi 20 anni?
Una città abbandonata al suo corso, al
suo destino e alla sua destinazione genera un modo di viverla
de-responsabilizzato e de-colpevolizzato, in una tollerante
accettazione della deriva destinale dell'esistenza. In altri termini,
collassa.
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